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È possibile parlare, poetare, pensare, oltre la lettera, oltre la morte della voce e della lingua? È l'interrogativo che si pone Giorgio Agamben nel saggio che introduce "Il fanciullino" di Giovanni Pascoli, uno dei testi più profondi, significativi e misconosciuti del decadentismo italiano. Per il fanciullino il linguaggio è una riserva di oggetti che "furono vivi" e che stanno come congelati sull'orlo della vita, in attesa di essere "animati". L'opera poetica è dunque, in primo luogo, un tentativo di restituire la vita alle cose morte che si sono depositate nella lingua, in una lingua che appare così essa stessa lingua morta: la poesia diventa allora una sorta di attraversamento della morte, una "complicità con la morte", che lega questo testo pascoliniano ai grandi testi del "moderno".